Passa ai contenuti principali

Post

Visualizzazione dei post da dicembre, 2017

In trattoria, ma a Narni

La piccola depressione fatua che a volte manifesto la curo - tra gli altri posti - a tavola, dove, a conferma della massima, non s'invecchia o si invecchia al rallenty. Ho il sospetto che l'abbiano coniata ai tempi dei Borgia, ma io me ne infischio, le dò un'accezione positiva e amen. Non che sia un mangione, tutt'altro: spizzico, sbocconcello, o al massimo prendo un'unica portata - ve lo dico caso mai vi venisse l'estro di invitarmi a cena: non rimarrete al verde. Però intuisco che mangiare è cultura, è scegliere il ristorante giusto - quello senza frastuono - salutare i vicini di tavolo, non sollecitare il cameriere - ti ha visto, non ci sei solo te, sta arrivando, -  rievocare con diletto, versarle il vino, sorriderle, guardarsi lieto attorno, ambientarsi, annidarsi rassicurato - come un uccellino implume, - alleggerirsi l'anima. Tutto questo non lo so se c'è nel menu dei ristoranti stellati - li frequento poco - ma certo ne trovo, di tali occasioni

La stanza della musica

Ero anch'io - senza saperlo - un ragazzino uscito da un romanzo di formazione, a quattordici anni. Tempo dopo avrei detto che King mi conosceva, quando scrisse The body , ma era solo una scervellata presunzione. In realtà l'infelice adolescenza è uguale dappertutto, e io non ero speciale come credevo: manco per sbaglio. Comunque mi isolavo - la casa di Narni si presta a chi vuol starsene per i cavoli suoi - e stancavo la pena, diluendola in una gioia liquida e breve; più volte sperimentai le dosi, pesai le polverine, spostai il piatto sulla stadera fino a che inventai un miscuglio delle due sostanze che tormentandomi alleggeriva. C'è una stanza dove ero re, e che di tanto in tanto mi scappa dalla memoria, come i dettagli di una vacanza piena di vento: ci è ritornata ieri, che salivo in collina al laccio d'una canzone di Concato. Racconta di un uomo che va al mare a febbraio, trova una trattoria aperta, si siede a un tavolo e comincia a mangiare. E me

Una fortuna ogni sette

Urto col dito una tazza di caffè americano, e dilaga sul piano di lavoro, inzuppando un mezzo racconto, la ricevuta dell'Imu, il nuovo Martin Mystere - ma solo di spigolo - e una brioche già morsa famelicamente in macchina. Giusto lei si riconosce nel contesto - tutto l'altro è incidentale. E però  proprio il caso - sia benedetto - mi srotola davanti infinite possibilità di romanzo, come un pilota di caccia che dall'alto osserva la terra e la scopre scacchiera. Le avventure umane si intrecciano, siamo cesti di vimini, stringiamo dita al cinema, e nodi gordiani dentro la fantasia. Poi salgo a Narni - un'altra volta -  a cercare terra per certe radici - che mi pendono dal sedere come tentacoli di un marziano - ma lo faccio nel giorno sbagliato, perché triluvia , e mentre asciugo le scarpe rovesciate sul termosifone, racconto la mia vita a casa mia, e sorvolando sui troppi aggettivi possessivi le confesso che forse sto per tornare. Non proprio dentro di lei, ma quasi, com

L'ovatta sui cavoli

Scrivere è faticoso, e non crediate che io ami così tanto il mio mestiere. Vorrei essere un fabbro, una libellula, un soffio di vento, l'arco di pietra - a Carsulae - sotto cui passano gli sposi. Vorrei essere uno dei tanti che passa la vita al bar. E invece. Perché scrivere sostanzialmente ti esclude: mentre lo fai gli altri vivono. Persevero, però, per due motivi formidabili: perché non so farne a meno - come uno che ammazza la gente per mania, ma spero di esser meno crudele - e perché è la cosa che mi viene meglio, tra quelle che danno da vivere. Alla Coop non accettano i miei libri in cambio di lenticchie e pane carasau; né posso sperare di far benzina infilando nel distributore automatico un paio di fogli di romanzo, anziché una carta da venti. Così devo far fruttare meglio che posso questo sciocco talento di narratore di disastri, ma in modo onesto. Sono io quello che scrive e sono io quello che scrivendo si piaga. Non lo so se tutti gli scrittori possono dire lo stesso. Son