Va da sé che certe mattine si sparecchiano di robe da fare per forza e mi ritrovo in braccio ore da riempire di quel che mi va. Come un regalo che mi faccio da solo, giro per i due o tre negozi in cui mi diverte girare, rallento il passo, cullo un sano egoismo e lascio che accadano cose. Non ci metto penna. Mentre spendo l'ira di dio in dischi e libri e progetto di comprare altra beatitudine - presempio, infatuato, nascondo dietro alla Gamberale certi romanzi perché nessuno ci arrivi finché non mi decido a scucire il denaro - ragiono sulla mia scrittura, pesante e leggera di ricordi. È come per le canzoni: sembrano fatte di niente e ti scolpiscono la vita come fosse di marmo. Gli venisse un accidente. Nel 1978, per dirne una, viaggiavo in Sardegna sull'Alfetta dei miei, e tra Olbia e Budoni la radio trasmise Raggio di sole. Che lì per lì mi parve una sciocchezza - giacché avevo undici anni e nessuna educazione allo stupore. Invece mi sa che mi entrò dentro, passando per qualche buco: le orecchie, il cuore, l'ombelico, o chissà. E quella canzone è ancora incastrata nella memoria, dove ha trovato casa, come una chiave di rinforzo in un muro spaccato. Da lontano passa una nave, tutte le luci accese - dice alla fine. È la password del mio estro capriccioso - va e viene quando gli pare: - io scorgo le vite di chi sta sul mare ma tengo i piedi sul molo. Guardo e non tocco, lascio agire, come il detersivo sulle macchie ostinate. Ho poi il sospetto che il mio sanguinoso album dei ricordi sia un racconto fuori tempo. Quello che dico è passato, è morto; quando arriverò a raccontare ciò che accade ora, quando questo presente sarà rielaborazione, non importerà più a nessuno. C'è questo scarto tra quel che mi urla e quel che è di moda che sfinisce, io sono indietro e voi avanti: il guaio è che mi fermo a raccattare tutto quel che mi è (ac)caduto, in tanti anni di scese di cuore, e a cui nella giovinezza non davo peso. Povero me. Per giunta - lo sapete, no? - amo le parole e le coltivo: ho un piccolo orto, vedeste, proprio dietro casa. Il che è appunto un'aggravante dal momento che la narrazione più è sciatta, senza identità, più piace. Sono a volte sul punto di arrendermi ma dovrei smettere di scrivere - perché non so scrivere che cercando. Ma cercando capito tra le grinfie di alcuni: gli analfabeti letterari, che leggono i libri dello schermo, quelli dietro a cui ne nascondo altri - ve l'ho raccontato sopra. E fargli la guerra e prenderli per il bavero è una goduria cui ancora non so rinunciare.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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