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San Girolamo

Anch'io ho un sogno - come Martin Luther King - ma meno politico e meno importante: tornare a quando avevo dieci anni. Non perché fossi sfrenatamente felice ma per pareggiare i conti con tutta la gente cui ho promesso oro e ceduto rigatteria. A patto che il soggiorno in quel tempo antico - il '77 - sia al massimo di un mese - perché amo comunque questa complicata contemporaneità - e che possa portare con me il cervello di adesso. Quello coi ricordi, le piaghe, le parole, i talenti minuti e i desideri immani. Quello con le cose capite tardi e col bagaglio di scuse oneste pronto da disfare e mostrare in piazza, al mio arrivo. Avrei il corpicino di allora e la tolleranza che ho da qualche frangente, nella speranza che gli altri ne abbiano con me una buona metà della stessa dose. E non per sapere in anticipo quello che succederà, ma per avere sentimenti adulti, compiere gesti adatti all'amore disinteressato che mi rivolgeste - anime care - e uno volta tornato qui vivere in pace. A prenderceli tutti - quelli a cui devo delucidazioni d'amore - il posto eletto sarebbe San Girolamo, la casa di Bisaccioni. Al pianterreno aveva la fabbrica di gazzose e spume col marchio di famiglia, dal pavimento appiccicoso e l'odore di cedro. Sopra, tutta la brigata ci andava la domenica - estate e inverno - a passarci il pomeriggio. Il calcio alla radio e poi i gol in bianco e nero; la zuppa inglese di Gino, che se ne infischiava del diabete, e lo zuccotto - pan di Spagna, liquore e gelato - d'estate, di cui era despota: comprava, faceva le parti, distribuiva le fette sui piatti della festa. Le moto a rombare alla strada asfissiata, alle due dei pomeriggi d'agosto, quando solo le cicale e la loro orchestra erano cose vive. A tutti quelli là attorno al tavolo direi che mi mancano - a quelli che sono andati via e a quelli che pur non avendolo fatto sono scomparsi. E che avrei voluto stare con loro un po' di più, ma che non credevo sarebbe stata così frettolosa, quella stagione. Gli parlerei del dolore, e del fatto che non mi hanno mai messo in guardia, contro quel demone. Ma solo un minuto; poi racconterei quel che ho fatto, quel che sono diventato, le persone che ho amato, gli anni di studio in cui mi si vedeva poco in giro e quelli esaltanti della libertà, e tutti gli Aprile consacrati in albergo a beffare la morte. Li vedrei commuoversi, magari, li vedrei orgogliosi. Il piccolo Francesco è diventato un uomo strano e solitario, gli piace scrivere e ne ha fatto un mestiere, inventa storie che taluni hanno amato, tanto da spenderci dei soldi, per leggerle. E alla fine quella scontrosità che ho, gli farei capire, è un po' la loro, me l'hanno destinata come una successione, e quindi non stessero troppo a rimproverarmi.






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