Nel 1978 andai in Sicilia con Pietro, Rita, Mauro e Gastone. Avevo undici anni e avevano appena ammazzato Aldo Moro. So che laggiù per la prima volta mi innamorai sul serio: gridava certi colori, quella terra, che non credevo esistessero, come se dio avesse pestato tubetti di tempera e dal cielo fossero colati lenti e regali sopra Siracusa, e le zolfatare, e le pianure accecanti, il mare greco, e le notti frivole di Taormina. E intrecciava come gerle certi suoni che poi ho scoperto essere voci di un dialetto maestoso. Lì ho cominciato ad amare le parole e a capire che chiamare una stessa cosa con nomi diversi è il segreto per intendersi meglio, tra popoli, e uno dei fondamenti della fraternità. Se ci detestiamo è perché non ci capiamo, allora, nonostante le invenzioni, che hanno moltiplicato i canali ma non migliorato la comunicazione. Ma a parte questo, quel viaggio fu una scoperta, davvero, e di tanto in tanto ci torno, con questa diligenza scombinata dei ricordi che mi ritrovo, e rivedo. Rivedo la notte del massacro delle zanzare, in un alberghetto di Messina: Gastone e Mauro le presero a cuscinate tutto il tempo, e splac, spatac, stunf, e non dormirono né loro né noi, nella stanza accanto. Ho impresso come un tatuaggio la targa della Dyane - TR 119473 - ché ce l'ebbi davanti agli occhi per duemila chilometri: andammo con due macchine ed era vietato sorpassarci - stabilì Pietro - per non perderci di vista tra Scilla e Cariddi. Ma più di ogni altro fotogramma ricordo una cosa comica, che poi rievocammo ad anni di distanza, nelle secche delle conversazioni a tavola, tra un altro Natale e il compleanno di qualcuno. Capitammo a Palermo alle due di pomeriggio, e svenimmo in albergo. Tutti tranne Gastone, che disse "Mica sono venuto in Sicilia per dormire" e in barba ai 40 gradi se ne uscì da solo per la città. Poco dopo Mauro bussò alla nostra camera: Gastone gli aveva telefonato, stava a Monreale e aspettava noi per entrare in duomo. "Ha detto: Senza Gastone non si entra" - precisò mio cugino. Così andammo, accaldati e scapicollandoci. Gastone ci aspettava fuori della chiesa, come uno sposo scalpitante. "E i calzoni?", domandò appena ci vide. "Che calzoni?", gli fece Pietro. "Come Che calzoni? Vi ho anche chiamato, vi ho detto: Senza calzoni non si entra!". Mauro impallidì. "Io avevo capito Senza Gastone. Pensavo che volessi dire che non ti andava di entrare da solo e che ci aspettavi!". Gastone era in effetti in pantaloncini corti, e il parroco gli aveva dato l'alt. Finì che legò un giacchino di Rita alla vita e il prete con una smorfia gli diede via libera. Così facendo un altro immortale tenero ricordo era nato e gli sciroccati come me ancora oggi si divertono da matti a raccontarlo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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