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Visualizzazione dei post da maggio, 2017

Narrativa disegnata

C'è insomma questa gestione del tempo, che è da considerare ogni volta. Il tempo di lettura di qualcosa: libro, fumetto, giornale. E non è un tempo che le possiamo dare noi - ai miei corsi di scrittura lo ripeto appena è il caso - ma è un tempo che sta dentro alla sceneggiatura, al pezzo, alla tavola, una cadenza che gli inietta l'autore. Perché l'autore sa come devi camminarci, per goderti le parole e per capire quel che loro ti raccontano: a volte accelera e tu devi corrergli appresso; a volte rallenta, e allora anche te è bene che vai piano. Ne ho avuto conferma leggendo un nuovo fumetto, cui sarò fedele ogni mese. Si chiama Mercurio Loi (Sergio Bonelli Editore), è a colori, è ambientato a Roma. Ma due secoli fa. Me lo sono assaporato lentamente, perché la lentezza è il ritmo - il tempo, appunto - che gli ha dato il suo autore: Alessandro Bilotta. Ad andar di corsa avrei mortificato la densità dei dialoghi, l'ironia che qua e là esplode, il giocare al gatto col t

Non urlarmi negli occhi

Il cielo in città pesa di più. E passano uomini curvi come punti interrogativi, e camminando si guardano le scarpe e calcolano il rischio di andare. Che è spaventevole, ma loro lo beffano col moto perpetuo, e giocano a essere fuori dal tempo - dalla tecnologia - e brandiscono cellulari antidiluviani con le mani grosse. Vanno a genio solo a se stessi, e a certi amori sfollati cui vorrebbero portare rose vecchie,  sfiorite. Io uno ne ho visto, di costoro, non più tardi di ieri l'altro. Pioveva, e teneva pure lui la testa china, e ha preso a un certo canto per la periferia dove il fiume si colora di acque reflue, e sul greto di incauti pescatori. L'ho immaginato inzuppato di memoria, solleticato da ragni sulla schiena, in una notte perenne che magari, al contrario, ai suoi sensi è primavera, scostato di un passo dalla necessità di essere normale. Un uomo secco, dalla barba di spini, che esiste appena appena sopra, o di lato, o di spalle a noialtri tutti; e ostinato di una determin

Storia lunare

Ho incontrato un uomo che mi rassomiglia, salvo per il fatto che sembra più giovane, e l'ho seguito tra le corsie di un ipermercato. Ho pedinato quell'uomo che sembra il me di dieci anni fa, prima della tempesta, ed era come un guardarsi in ritardo, un voltarsi a spiare il tempo tra la stecche larghe di una staccionata, al modo di Scout Finch. Ha compiuto gli stessi gesti miei - i miei di allora, ché oggi ho mutato anche il modo di fare la spesa, di spingere il carrello, e leggo le scadenze adesso con gli occhiali - e a studiarlo mi sono riepilogato, riassunto, fino a ricordarmi meglio cosa ero, chi baciavo al cinema, e la premura con cui sceglievo gli orecchini da regalare. Sospetto che non sarebbe mai nato - quel sosia mio - se non l'avessi guardato; se non avessi insistito nel puntargli gli occhi addosso, così giustificandone la vita. Manifestava un vezzo strano, un'ostinata eccentricità: comprava oggetti a caso. Un pennello da imbianchino, un flacone di emolli

Un altro mondo

Certi giorni antichi sono come feritoie sugli spalti di un castello: ci guardi attraverso ma vedi un rettangolo appena di ricordi, un ring verticale dove le memorie si prendono a pugni e quella che resta in piedi - boxeur ostinata - è quella che racconterai. Succede così coi giorni di sole marziano della mia giovinezza, che non ho mai tradito. Il boato di caldo delle due di pomeriggio, predone dell'aria e degli uomini lungo la Flamina, io lo smaltivo all'ombra degli scuri, venti metri sopra quella stessa strada dove abitavo, a sperimentare il tempo immobile e la sua morbosa fascinazione. Aveva un odore - quel lago infocato - di vampa, di rogo nucleare; e un muto suono che attutiva gli altri rumori: i freni ispidi delle biciclette, lo stridìo del cancello delle Poste, il darsi la voce dei carpentieri, sulla ripa di via della Luna. Io stavo. Stavo in una polla di inferno e riandavo con passo da gambero incontro al tempo - già allora era un mio vizio. E la stessa cortina di metall

Giusto in mezzo agli occhi

Per gli scrittori la mostruosità è attraente - nel suo senso primitivo di prodigio, beninteso, di cosa straordinaria. E a me ben prima di diventare scrittore già costruiva agguati, tipo quando preparavo l'esame di storia della stampa e scendevo, a giugno, verso i giardini estremi della città, dove la memoria piega addosso all'infanzia, e le pietre sono le stesse ma  le persone che ci camminano intorno no. Lì posavo il libro sopra l'erba, perché alle rotative di Gutenberg preferivo i deliri di Dylan Dog. Il motivo è semplice: mi facevano spazio dentro e ci piazzavano l'inquietudine. Come una mina innescata che non sapevo quando sarebbe esplosa. Lo racconto oggi perché oggi - insomma, negli ultimi tempi - ho ricominciato a leggere Dylan dopo averlo ignorato per anni. Non mi insinuava più, sottopelle, nessuno spavento, non mi spalancava più paure a cui fosse benefico dar corda. Oggi ho ricominciato non perché di paure lui ha ripreso a nutrirmi - le paure archetipe sono tr