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Visualizzazione dei post da febbraio, 2017

La scoperta di dio

Casa nasconde ma non ruba , sentenziavano alle mie orecchie ragazzine gli adulti, nell'adolescenza ingabbiata che avevo. E io che pensavo lo faceva però troppo bene - casa - quel sottrarre oggetti, tanto che non vedevo la differenza tra la mia dabbenaggine e un furto con destrezza. Oggi uguale: sono tre giorni che non trovo gli occhiali da sole, quindici che non ho nuove di certe scarpe, due mesi del byte dentale. Ogni sparizione oltre che un mistero è una grana perché mi sconfina nel passato, alla memoria dell'ultima volta che ho usato, avvistato, quel che ho perso. Come se non facessi già fin troppa ginnastica dei ricordi. Nel passato - ve l'ho mai detto? - abitano persone che mi sono accorto di amare dopo che sono morte. E questo è un altro smarrimento: magari sono sempre nella stanza accanto alla mia, loro in anticipo e io in ritardo, ed è un rincorrersi comico, e mi sorridono mentre dormo, e mi chiamano con voce spenta e ogni volta è un prurito di nuca. Certe disper

Mi porterò

La magnificenza della stagione di mezzo ogni volta mi rapisce il cuore, e chiede un riscatto: che io la scriva. Così oggi, che ho salito a mezza via la boscaglia attorno casa e a uno slargo ho visto la primavera, perché gli scrittori vedono le cose in anticipo, è un fardello e un privilegio. Stava arrampicata in cielo, intinta nelle nuvole enfie di fuoco; dispersa nell'aria, tra gli ulivi giovani, al di là di un cancello divelto. Ogni foglia sembrava l'avessero bagnata d'argento, come ai tempi in cui consegnavo a mia madre le palme benedette, dalla messa. E quella contentezza me ne ha slargate altre, lontane, che porterò via con me, quando sarà il tempo. Perché partire da solo non mi va: il viaggio non ha senso in sé - come dicono. Ha senso se certe tenerezze ti accompagnano. Ecco allora Gino che sale su per via Vittorio Emanuele col primo gelato dell'anno - un'altra primavera, scoscesa d'anni, e regale. Ecco i tamburi della festa, e le fiaccole, la resina che

Vita d'artista

Non bevo caffè al caffè, anche se vado ai caffè di continuo. Se ci vado in compagnia, al massimo ne rubo mezzo cucchiaino, che vuol dire già una porzione di insonnia in più, la notte che segue. Altrimenti cerco improbabili surrogati: un orzo - In tazza piccola o grande? mi chiedono sempre, e mi perdo: è una domanda per cui non ho risposta -  ovvero una Schweppes, e me ne contento; se sono solo mi porto un libro, e se c'è un cortiletto fuori del caffè, se ci cade il sole, mi ci apparecchio, e leggo come leggerebbe un gatto se sapesse farlo: strafottendomene di tutto. C'è un gusto primaverile a leggere conciati a quel modo, pure se ancora l'inverno è giovane e pieno; ed è un vezzo da artisti che indossano il Panama, lo poggiano sul tavolino dalle zampe di ferro o sul murignolo curvo, sostare così. E stanno là fino alla fine del capitolo intitolato Il guerrigliero , o finché non li prende la smania di camminare. E allora sono gambe in spalla, ma solo per la cerca di un altro

Immortalare

Al contrario: le fotografie sono necessarie. A onta dei mentecatti che ironizzano in Facebook, servono invece a immortalare - etimologicamente - un giorno. Si vede che quegli sventurati non hanno niente da rendere eterno - né una donna mentre ti corteggia, né un ristorante dove si mangia da pascià, né una risacca del Tirreno il 7 aprile - e nessuna vanità da raccontare. Io presempio fotografo tanto, quando viaggio, specie se il viaggio è vicino. Non ho avuto la forza di fotografare Budapest - dove vidi un mare azzurro e mi dissero "No messié : è un fiume", e il sole arpeggiarci sopra le dita come su un liquido sitar, e facce lunghe di operai zitti - e lo stupore mi fece così straniero e la meraviglia così poco terrestre da rallentarmi i battiti. Fotografo invece i cortili accanto, le ripe di campagna, i chiostri dai pozzi illucchettati, le edicole votive, del tipo oggi a Macerino, dopo tre quarti d'ora di macchina. Ché tre quarti d'ora di macchina - al netto del

Il senso del tutto

Salendo in collina incontro a mezza via una casa che m'infantasisce, giacché in mezzo al tetto s'apre una terrazza dalla ringhiera circolare da cui mi piacerebbe osservare il mondo, e la strada che sgomitola, e i viandanti che rischiano la pelle a costeggiare la ripa. Non mi fermo mai, perché fermarsi vorrebbe dire infatuarsi troppo, e scontentarmi di quello che ho, che non è poco. Pure rallento, e ricordo che là sotto a quella terrazza fino a un po' di tempo fa c'era il forno di un camorrista napoletano che faceva una pizza bianca da premio letterario: una poesia, insomma. Ci venivamo la domenica, fino a che non gli bruciarono il locale, quando già la fine era cominciata ma fingevamo di non accorgerci del baratro, dei bollettini medici da leggere tra le righe. Ancora ricordi, per cui, che credevo mi appesantissero e invece no, il contrario, mi fanno far pace col passato, con le malinconie che ambivano a essere sensi di colpa e coi sensi di colpa che s'auguravano