Passa ai contenuti principali

Post

Visualizzazione dei post da 2017

In trattoria, ma a Narni

La piccola depressione fatua che a volte manifesto la curo - tra gli altri posti - a tavola, dove, a conferma della massima, non s'invecchia o si invecchia al rallenty. Ho il sospetto che l'abbiano coniata ai tempi dei Borgia, ma io me ne infischio, le dò un'accezione positiva e amen. Non che sia un mangione, tutt'altro: spizzico, sbocconcello, o al massimo prendo un'unica portata - ve lo dico caso mai vi venisse l'estro di invitarmi a cena: non rimarrete al verde. Però intuisco che mangiare è cultura, è scegliere il ristorante giusto - quello senza frastuono - salutare i vicini di tavolo, non sollecitare il cameriere - ti ha visto, non ci sei solo te, sta arrivando, -  rievocare con diletto, versarle il vino, sorriderle, guardarsi lieto attorno, ambientarsi, annidarsi rassicurato - come un uccellino implume, - alleggerirsi l'anima. Tutto questo non lo so se c'è nel menu dei ristoranti stellati - li frequento poco - ma certo ne trovo, di tali occasioni

La stanza della musica

Ero anch'io - senza saperlo - un ragazzino uscito da un romanzo di formazione, a quattordici anni. Tempo dopo avrei detto che King mi conosceva, quando scrisse The body , ma era solo una scervellata presunzione. In realtà l'infelice adolescenza è uguale dappertutto, e io non ero speciale come credevo: manco per sbaglio. Comunque mi isolavo - la casa di Narni si presta a chi vuol starsene per i cavoli suoi - e stancavo la pena, diluendola in una gioia liquida e breve; più volte sperimentai le dosi, pesai le polverine, spostai il piatto sulla stadera fino a che inventai un miscuglio delle due sostanze che tormentandomi alleggeriva. C'è una stanza dove ero re, e che di tanto in tanto mi scappa dalla memoria, come i dettagli di una vacanza piena di vento: ci è ritornata ieri, che salivo in collina al laccio d'una canzone di Concato. Racconta di un uomo che va al mare a febbraio, trova una trattoria aperta, si siede a un tavolo e comincia a mangiare. E me

Una fortuna ogni sette

Urto col dito una tazza di caffè americano, e dilaga sul piano di lavoro, inzuppando un mezzo racconto, la ricevuta dell'Imu, il nuovo Martin Mystere - ma solo di spigolo - e una brioche già morsa famelicamente in macchina. Giusto lei si riconosce nel contesto - tutto l'altro è incidentale. E però  proprio il caso - sia benedetto - mi srotola davanti infinite possibilità di romanzo, come un pilota di caccia che dall'alto osserva la terra e la scopre scacchiera. Le avventure umane si intrecciano, siamo cesti di vimini, stringiamo dita al cinema, e nodi gordiani dentro la fantasia. Poi salgo a Narni - un'altra volta -  a cercare terra per certe radici - che mi pendono dal sedere come tentacoli di un marziano - ma lo faccio nel giorno sbagliato, perché triluvia , e mentre asciugo le scarpe rovesciate sul termosifone, racconto la mia vita a casa mia, e sorvolando sui troppi aggettivi possessivi le confesso che forse sto per tornare. Non proprio dentro di lei, ma quasi, com

L'ovatta sui cavoli

Scrivere è faticoso, e non crediate che io ami così tanto il mio mestiere. Vorrei essere un fabbro, una libellula, un soffio di vento, l'arco di pietra - a Carsulae - sotto cui passano gli sposi. Vorrei essere uno dei tanti che passa la vita al bar. E invece. Perché scrivere sostanzialmente ti esclude: mentre lo fai gli altri vivono. Persevero, però, per due motivi formidabili: perché non so farne a meno - come uno che ammazza la gente per mania, ma spero di esser meno crudele - e perché è la cosa che mi viene meglio, tra quelle che danno da vivere. Alla Coop non accettano i miei libri in cambio di lenticchie e pane carasau; né posso sperare di far benzina infilando nel distributore automatico un paio di fogli di romanzo, anziché una carta da venti. Così devo far fruttare meglio che posso questo sciocco talento di narratore di disastri, ma in modo onesto. Sono io quello che scrive e sono io quello che scrivendo si piaga. Non lo so se tutti gli scrittori possono dire lo stesso. Son

Dietro alla Gamberale

Va da sé che certe mattine si sparecchiano di robe da fare per forza e mi ritrovo in braccio ore da riempire di quel che mi va. Come un regalo che mi faccio da solo, giro per i due o tre negozi in cui mi diverte girare, rallento il passo, cullo un sano egoismo e lascio che accadano cose. Non ci metto penna. Mentre spendo l'ira di dio in dischi e libri e progetto di comprare altra beatitudine - presempio, infatuato, nascondo dietro alla Gamberale certi romanzi perché nessuno ci arrivi finché non mi decido a scucire il denaro - ragiono sulla mia scrittura, pesante e leggera di ricordi. È come per le canzoni: sembrano fatte di niente e ti scolpiscono la vita come fosse di marmo. Gli venisse un accidente. Nel 1978, per dirne una, viaggiavo in Sardegna sull'Alfetta dei miei, e tra Olbia e Budoni la radio trasmise Raggio di sole . Che lì per lì mi parve una sciocchezza - giacché avevo undici anni e nessuna educazione allo stupore. Invece mi sa che mi entrò dentro, passando per qual

Quaranta notti

La memoria di un narratore deve essere inquirente, per funzionare. Io nella testa ho Scotland Yard, e non c'è di che vantarsi - ma tant'è -  per via che mi costringe ogni giorno a setacciare il passato alla ricerca di indizi - un brillìo di stagione, un evento gentile, una dolcezza da chi non credevo capace - che non ho ancora raccontato. Ecco per cui che alla luce opaca di novembre, che mi piove in casa come viaggiasse dall'Irlanda brumosa, apparecchio i ricordi e scovo quelli che sono ancora muti. C'è un perverso gusto, a farlo, e una mite presunzione. Tutte e due le emozioni riguardano me, non pretendo che le condividiate. Del resto, non sta in nessun vangelo che si debba scrivere ciò che la gente ha piacere a leggere: i cattivi narratori, lo fanno. I buoni, incorrotti, hanno un ristorante - per restare nella  metafora ghiotta - dove le pietanze il cliente non le sceglie: gli sono imposte. Salvo poi accorgersi - una volta morsicate - che non sono male. Prendo allora

La banca ai suoi piedi

Sul bordo del fazzoletto che è largo Villa Glori, stamattina, un uomo con una grande barba prussiana suonava da dio un flauto traverso. Era un finfirulin leggiadro, un soffio di poesia dentro i fori - ho riconosciuto Il cardellino di Vivaldi, perché lo suonava anche Gastone, quando lo pigliavano attacchi di disamore per il pianoforte. La custodia, per terra, era piena di monete, e la gente, arrivandogli a tiro, rallentava, si fermava; qualcuno ha aperto in faccia un sorriso insperato come per la fine di un patimento, quasi che quell'uomo avesse in tasca una calamita che attirava i melomani. Portava calzoni corti, le gambe erano viola di vento intirizzito, e avrà avuto sessant'anni. Ho pensato alla sua casa, se ne ha una: forse a lui non spiacerebbe sistemarsi in una chiatta sul fiume, e se abitasse a Roma so che sarebbe possibile. Li chiamano fiumaroli : vivono dieci metri sotto il livello della strada, beati loro. Per scelta, voglio dire, non per povertà. Io andavo in banca

La contentezza

Eccola che arriva, come d'estate la patina bianca sul cioccolato, e allo stesso modo non è che un difetto apparente. All'improvviso mi veste - è successo poco fa, a pranzo, tra un boccone di pane intinto nel sugo e una nuvola scemotta sopra casa -  e vestendomi mi smorza, mi placa, e resto fermo e seduto, apparentemente sfinito. Sto buono invece perché se mi agito ho paura che scappi dalle ossa. La contentezza, dico. Oh diamine, è così che la chiamo, ognuno la battezzi come crede. Perché mi piace quella sillaba quasi ripetuta - ten tez - come un soldato che suona una campana per annunciare che è finita la guerra; o Babbo Natale che mescola col cucchiaio la tisana al rosmarino, ai tempi in cui gliela lasciavo - credulo - sulla brace fioca. Basta che qualcosa giri per il verso giusto - una diretta in radio fatta come dio comanda, una parola illuminata che non mi veniva dentro un racconto, Susi che prende 8 a filosofia dopo un pomeriggio passato a studiare insieme Eraclito - e l

La mia prima vacanza

Devo scrivere il mio nome su questa valigia. Mi hanno dato un pezzo di gesso, ma se piove il gesso scolorirà e nessuno saprà più che questa è la mia valigia. Ho la febbre, sento la fronte scottare, ma sono felice. Jacob è partito già il mese scorso. Mi aspetta laggiù, dove il sole fuma nel mare come un ferro rovente e il vapore che sale dall’acqua offusca il tramonto. Laggiù mi curerò la tosse, il clima secco mi aiuterà. Mio padre e mia madre sono da qualche parte là fuori, in attesa del nostro treno, tra mille altre persone in partenza per il mare. La mia prima vacanza. Da quando sono nata, undici anni fa, è la prima volta che esco dal mio quartiere. Papà ha lavorato il doppio per pagare questo viaggio. Un giorno è tornato a casa con una promozione. L’ingegnere ha apprezzato così tanto la sua dedizione che lo ha promosso caposquadra, e gli ha messo una fascia sul braccio. Sembra il capitano di una squadra di calcio. Ora, quando s’arrampica sulle impalcature, è lui a

La vita dentro le parentesi

Tables for Ladies -  Edward Hopper Il sabato sera invernale mia madre mi piazzava dentro la vasca da bagno e ne uscivo che avevo le branchie. Era il settantaquattro o il settantacinque? Tutti e due gli anni, probabilmente, ed altri ancora, attaccati. E comunque fa lo stesso. Quel che importa è che erano parentesi di piccola felicità, congrua alla mia infanzia - non troppo pretenziosa ed anzi schiva - e che quella cerca di agio me la son portata dentro fino a qui, e conto che mi accompagni per tutta la vita. Stavo in un benessere perfetto, come ora quando con speranza lo indago tra le fatiche immani, le inspiegabili traiettorie della malinconia, le paure assalite. Se c'è un pezzo di tempo sgombro - prima di un salto a scuola, di una spesa alla Coop, di una cosa fatta per forza - me ne impossesso, e ne faccio ricchezza. Il che vuol dire che lo passo come voglio: in macchina a finir di leggere il capitolo lasciato mozzo la sera, stracco di sonno; in vetta a un ponte sopra il nast

Camera cafè

Crock,skiok, tump : ecco che la casa espelle i suoni di mezzo secolo, assorbiti e mai cacciati, come invece temevo. Ecco che mi spaventa e allegra con i sobbalzi di Gino che sbuffa nella legnaia, di Gastone che suona le Polacche, di Pietro che gira la chiave nella serratura. Domenica ci ho fatto caso, erano lì, tutti quei rumori, ad aspettarmi, che sono salito a prendere la crostata. Vuota la casa dove sono nato, e ci vuole il mio coraggio quando è vuota ad entrarla, esplorarla, camminare dalla luce delle stanze sulla strada maestra al medioevo di via della Pigna. Avevamo concordato via whatsapp una incredibile rimpatriata, io e i miei due amici più antichi: Luca e Paolo. Non davanti a un distributore del caffè, la telecamera a riprenderci, ma in via Aspromonte, che sembra una canzone di Faber e invece è un vicolo arrampicato di Narni. Così ho chiesto a Rita se faceva un dolce, Che dolce? mi ha concesso e io Il migliore, c'è da chiederlo? Ho incartato la crostata

Chi è l'ultimo?

Oh che meraviglia, la gentilezza della farmacista! Stamattina dico, che ieri ero andato a prendere un farmaco senza ricetta. Così oggi l'ho riportata e lei mi ha ringraziato come le avessi salvato la vita: due, tre volte, e una quarta mentre uscivo. Ecco la gentilezza, ecco l'unità di misura che abbiamo perduto. Io ho perduto tante cose, alcune immani, e forse in qualche epoca la stessa grazia che mi sforzo di mostrare al prossimo s'era addormentata, ma incontrare la gentilezza, riceverla, è sempre aria pulita. Allo stesso mondo - ch'io sappia - appartiene il tanghero che due ore dopo stava per spalmarmi sulle strisce colla Cherokee in pieno centro; e l'altro - sì, anche l'altro - che in capo a un'altra ora ha inchiodato e curvato a gomito senza degnarsi di farlo sapere a me che gli stavo dietro. Perché è un segno di gentilezza, metter la freccia, e la gentilezza è debole, è un atto che ci mostra fragili, un ossequio, perfino. Ma posso esser fragile, osse

Il piccolo ranger

Ciao pietre, ciao casa, ciao città. Rincollo tenerezze nuove e vecchie ogni volta che commetto l'empietà di salire a Narni, e annaspo nel tempo che tira sotto, che ha sabbie mobili al posto del pavimento. Sei fatto a fantasie - protestava Gino quando piantavo grane per la gazzosa e poi cambiavo idea. Una volta trovammo sul semicerchio di pietra davanti al Suffragio un albo del Piccolo Ranger, nuovo nuovo, e io credei d'esser nato con la camicia, e che la vita sarebbe stata un po' così, a grandi linee. Direi che si allenava a prendersi gioco di me già allora - la mia vita, invece; di me e del mio incauto ottimismo, delle lucciole scambiate per lanterne, e della fiducia malriposta. Pure, a ripensarlo oggi, ha una dolcezza, quel tempo, che squaderna. Sono tornato ieri nel rettangolo di giochi dove quella stagione sembrava per sempre: San Girolamo. È tutto in abbandono: i gradini rotti appena sotto il chiosco della donna zoppa, le radici degli alberi come dita di mostri aggra

La mira del narratore

Un altro autunno si è sdraiato sui posti dove abito - anche se i posti dove abito sono tanti, negli anni recenti, e fa più autunno qua piuttosto che là, c'è il caso. Al modo di un cameriere astrale che posa un tovagliolo sopra il mondo come fosse un piatto da tenere in caldo, il cielo ha preso quel colore grigio canapa, e la pietanza siamo noi. Non che me ne lamenti: la stagione che s'accorcia mi porta in dote un bottino di ricordi - ne ho per farci una guerra, mica scherzi - e nello stesso frangente mi scaraventa matto e allegro fuori di casa, per boschi e pietraie. Così oggi, che pioveva e non pioveva, e temerario ho scelto di partire senza ombrello per aver le mani libere; e senza soldi per scoraggiare la tentazione di spenderli in giornali e libri, giù in paese. Ho preso uno dei sentieri francescani che a un salto da casa portano a Greccio - se hai tempo e garretti da maratoneta. Mi contento di un paio di chilometri, in situazioni del genere, in capo ai quali ho il fiato co

Immortali

Non è per la taccagneria - anzi: a volte ho le mani bucate - ma per altre sintonie che vivrei in Scozia. Ha a che fare col mio inclinarmi all'autunno come uno stelo all'erba. O un faccendiere al denaro, se gradite un'immagine meno sdolcinata. È lassù che potrei assecondare la mia storta voglia di andar per boschi in cerca di elfi e folletti, di fate che comparirebbero nello smartphone, tipo in quella panzana cui abboccò perfino Conan Doyle, bugia tenerissima e misteriosa. Ho questo carattere d'ombra e foresta che si sposa con la cerca di cose che non esistono, eppure vorrei tanto il contrario. Ho la certezza che m'ambienterei placido sulle rive del Loch Ness a scrutare se per caso arriva Nessie, e in ogni increspatura, in ogni cerchio d'acqua, intuire la testa del mostro. Poi per i campi infiniti, per le terre alte, le colline di greggi lanose e giù fino al mare, guiderei un maggiolino arancione, sbuffandolo, smarmittando, con la cassetta di Sgt. Pepper's L

Tenebrosa

Il mio sogno ricorrente è fare un viaggio su una diligenza, coi cavalli, il cocchiere, il forziere dell'oro e quattro compagni d'armi, d'inverno, in una contea selvaggia, coi lupi a rincorrerla e ad abbaiare alle ruote. Darei un centimetro d'altezza per una cosa così, purché duri abbastanza da farmi passare la voglia. Una settimana, dico, una settimana a spaccarmi la schiena sulle assi di legno di quel trabiccolo, sulla strada sterrata che lacera due file infinite di alberi, un bosco fitto come la foresta nera. Ci fermeremmo a cambiare i cavalli in qualche stazione di posta dove il montone non sia rancido, e dormiremmo sui pagliericci in uno stanzone oscuro, illuminato da un camino gigantesco, tutti insieme. Le ombre degli animali, fuori dai vetri, il woof degli orsi all'affacciarsi della radura, i respiri gelati, le coperte avvolte ai corpi, la resina che scoppia nel fuoco: tutto concorrerebbe a farmi scrivere un grande romanzo. E il mattino appresso ripartire,

La città non mia

Stare soli per un giorno ha il vantaggio di rallentare la corsa - della spesa, degli uffici - e rimandare gli avvenimenti, cosicché posso guardarli da lontano ancora per un po'. Se tiro il freno, le cose che devono succedere non mi assaltano con l'impeto che di norma hanno, e mi regalano tempo, e brani di bellezza. Me la prendo comoda, allora, e rivedo la città nei suoi camminamenti antichi, li ripasso come a penna una linea a matita, rifaccio al contrario certe vie che attraversavo ragazzo in cerca di un angolo buio dove toccarti, te che mi scansavi le mani, e ridevi, e dicevi Ci vedono . E certe piazze sventrate che un tempo erano composte - conchigliette abitate da gelatai, banchi di albicocche candite, - sì, le taglio longitudinalmente anche loro, fin là dove posero chissà quando la testa di pietra di un leone - e chissà perché. Progettammo una vacanza, nei pressi, la prima da soli, e alla tipa dell'agenzia confessammo ingenui di non essere sposati, tanto che lei sba

Tardèl

Non che fossero gran bevitori, quelli della mia famiglia; anzi, non ricordo una sbronza che è una, non ricordo intemperanze alcoliche, parole incoraggiate dal vino, allegrie alticce. Pure, piaceva loro bere bene, e fuori dal frigo per non addolcire il giudizio con l'affanno della sete - d'agosto, tipo, quando il sole implacato picchiava duro. Così Gastone, intraprendente e ancora scapolo - si sposò a cinquant'anni - volle fare un regalo agli altri. Immagino fosse settembre e la vendemmia quella dell'anno prima. Sto di nuovo parlando degli anni settanta: quando ne avete abbastanza, ditelo. Comunque uscì di casa e in capo a un paio d'ore tornò, e quando tornò reggeva una damigianina da venti litri. Ci basterà fino a Natale , annunciò, e gli altri Ma tutto insieme, via, costerà , per cui aggiunse Non voglio un centesimo: pagarlo è pensiero mio . Mi infatuò - e la novità; e l'odore aspro del sughero imbevuto che avevo intuito in terza elementare dentro San Martino

È una giungla, là fuori

Ho di Jerry un ricordo a strati, come una torta nuziale, un ricordo sopra l'altro, uno per ogni epoca della mia vita. Pensavo fosse una specie di cartone, senz'anima e senza carne, eterno - il primo strato; - poi me lo sono ritrovato sofferente di fibrosi polmonare su un settimanale che una domenica Pietro portò a casa - il secondo strato. Lì la faccia del clown si contraeva in un dolore fitto, tanto che pensai ne avesse per poco. Capii che anche i comici potevano morire, passò del tempo e non avvenne; così cambiai idea e immaginai fossero esentati dalla fine, quelli che avevano fatto allegro il mondo. Il terzo strato fu quando lo rinvenni scorbutico e sobrio in un film di Scorsese, in cui faceva se stesso per la prima volta. Si era sgiaccato del suo primo abito d'attore, delle smorfie, e non sembrava star così male. Era perfido e seccato, odiava i fans - come immagino abbia fatto davvero fino all'ultimo. Lo detestai perché lui desiderava quello: i grandi interpreti ot

Una storia di fantasmi

Dieci anni fa andavo in televisione una volta alla settimana a parlare di calcio. Ne facevo un piccolo vanto, come di chi si ritrova in un contesto alieno e inorgoglisce di diversità. Mi piaceva raccontare le partite romanticamente, in modo imprevedibile, come han fatto Gianni Brera e Vazquez Montalban. Ho sempre trovato il calcio una lampante metafora della vita: appassionante, noioso, frustrante, sensuale, come lei è. Altri sport la sfiorano, la rappresentano meno nitidamente. Il calcio la sublima, canta e scolpisce con impressionante fedeltà. Anche ai particolari. Magari una volta di queste mi dilungherò sull'argomento. Stavolta mi preme altro, mi preme dirvi cosa accadde una sera, dopo la trasmissione. Per il fatto che oggi - senza un motivo - la stanza dentro la testa nella quale il ricordo era chiuso si è aperta di nuovo. E lui è uscito. E quindi. Capitò mentre risalivo in macchina, mezzanotte passata. Gennaio, foschia, i semafori a galleggiare in un'aria densa che ne s

Un mondo migliore

Come in altri giorni lontani che han gli stessi nomi di quelli di adesso - e i numeri, e l'astenia, e il caldo cocente, - così oggi ho annusato nella memoria l'identico loro odore appiccicoso. È lei che a tradimento scova dentro stanze solo sue il quando e il posto - intorno al '93, un angolo scuro dove forse ho spostato un secretaire lucido di lacca - e le coordinate portano ancora alla mia giovinezza. Laggiù salivo le scale di casa ed era - dopo la tabaccheria - una promessa di sollievo: dalla fatica al riposo misantropo di libri e canzoni. Già alla prima rampa mi faceva incontro il profumo di frutta a bollire, di zucchero arrosto, e il rumore delle cucchiaie di legno sul bordo del tegame - deng, clonk , tatunk - a scrollarsi l'impasto. Appresso, le voci di Bruna e Rita - Non farla addensare; Girala sempre nello stesso verso; Mica è il primo barattolo che riempo! e bisticci tra le pause a turno per riposare il braccio. La marmellata, facevano. La facevano, è la pur

Tabaccheria

Dicono che il primo temporale d'agosto spenga l'estate, come tuffare un ferro rovente dentro un bacile: sfuma, e poi quando l'afferri è tiepido. Così anche stavolta ho aspettato la pioggia: per rinsavire. La stagione feroce non fa per me, sono nato a gennaio. Mi entra in casa e spalma sulle pareti uno strato di asfissia, ed è come stare in una piscina di fango. Però stamattina è arrivato, l'acquazzone: forte e tempestivo - mentre uscivo di casa. E il solito viaggio - dalla collina dove abito da un anno fino alla radio dove lavoro da diciotto - è stato nostalgia, per quei ricordi che ti afferrano quando basta una somiglianza tra oggi e loro. Pioveva d'estate anche quando vivevo in tabaccheria a grandi ore, improvvisamente; si scuriva il cielo, brontolava come Gino alle prese con un cliente molesto, sgombrava i tavolini all'aperto di tutti coloro che aspettano la morte al caffè, per tutta la vita, e iniziava a precipitare dappertutto. La pioggia era in quel fra

L'estate di Monk

C'è questa regola triste per cui se a un uomo gli levi la passione della vita, muore. Come spegnere la luce in una stanza, come smettere di raccontarsi. Così Mauro se n'è andato, appena dopo che gli hanno imposto la pensione - obolo terminale che non dà scampo - e in capo a cinquant'anni spesi a vendere giornali. Non era un mestiere, a quelli si sopravvive. Era - per sua ammissione - il senso del levarsi dal letto, e del combattimento. Non li fa fuori una qualche malattia, una distrazione, coloro che reggono questa fortuna: il cancro e i tamponamenti feroci sono solo strumenti. Li ammazza il niente che di colpo si ritrovano addosso, la messa a riposo delle celesti abitudini. Perciò io scrivo forsennatamente: per restare attaccato alla vita, per farle capire che è il mio modo di onorarla. Purtuttavia. Purtuttavia piovono giorni torridi e tristi, sì, quanti ne voglio. E l'ansia si mangia il sonno come un topolino i contorni del giornale. Ma appena posso lancio un sasso d

La micia malinconica

Ci aspettava - magrolina e spaurita - nel sottotetto. Le si leggeva diffidenza negli occhi e il passo era cauto, come di chi ha masticato botte e spaventi ogni giorno della vita. Ci prese in simpatia, ma con altera grazia, come discendesse dalla cucciolata di Cleopatra, e quando mangiava, mangiava spizzicando, e lasciando giù la gran parte; poi andava via, senza ringraziare. Io credo ci abbia tollerati fin dalle prime mattine che sfacchinavamo il trasloco, in mezzo ai piedi a curiosare, a intingere la zampa nelle latte di vernice, a capire di che pasta fossimo fatti, se crudele o benevola, e a farci capire che la padrona di casa - volenti o nolenti -  era lei. Vive qui da prima di noi, è sterilizzata, è dolce e indipendente, e obiettivamente bellissima. Miagola forte quando vuole spettatori dei suoi crimini: dà la morte civile alle lucertole, agli uccellini implumi, ai topolini innocui di campagna. A volte tento di strapparli dalle sue grinfie prima che li abbia martoriati troppo, e a

Treno

Prima o poi lo farò, quel viaggio in treno che sogno dalla giovinezza. Passerò tra le gole dell'Appennino, e sarà ottobre, per non dover morire di caldo e tornare in tempo per Natale, a raccontare - ai fantasmi attorno al tavolo - l'avventura. Sbufferà lo sbuffo del locomotore, e il pennacchio sventolerà, e gli scompartimenti saranno di legno scuro, i sedili foderati di damasco, i camerieri in livrea candida, la sala ristorante satolla di ghiottonerie. Fuori sfilerà la selvatica Italia, tra dirupi e torrenti come ferite bianche, e le rotaie saranno arrampicate sopra agli abissi, e tremerò di spasso. Ho questo senso dell'assediato che mi corteggia da una vita, il gusto di sapere il pericolo fuori dai vetri e il sollievo di tenermene al sicuro, ma appena per un diaframma. Il treno esercita questa fantasia letteraria, sui miei desideri: è il posto mobile degli omicidi, della raffinatezza investigativa, di Poirot e Miss Marple, dei corteggiamenti galanti, dei romanzi ottocen

Il poeta del west

Ho voglia di scrivere di lui da un mucchio di tempo, ma per un motivo o per l'altro non l'ho mai fatto. Lui è Charles E. Bolton, agricoltore e cercatore d'oro di origini inglesi - meglio noto col soprannome di Black Bart - e compì tra il 1875 e il 1883 una serie di rapine ai danni delle diligenze che trasportavano i proventi della Wells Fargo, in certi angoli dell'Oregon e della California. Mi ha sempre incuriosito la sua storia, e non capisco perché nessuno - che io sappia - ci ha mai fatto un film. Era un galantuomo e a quanto ho scoperto faceva il farabutto con ritrosia: non derubava i viaggiatori ma solo le cassette della compagnia, e il fucile che spianava in faccia alle vittime - calzando in testa un sacco di farina coi buchi per gli occhi - era scarico. Ma per un gesto su tutti me ne sono infatuato: a ogni colpo lasciava una poesiola scritta di suo pugno dentro il forziere vuoto. Non era Walt Whitman, beninteso: le sue rime erano elementari, la metrica incesp

San Girolamo

Anch'io ho un sogno - come Martin Luther King - ma meno politico e meno importante: tornare a quando avevo dieci anni. Non perché fossi sfrenatamente felice ma per pareggiare i conti con tutta la gente cui ho promesso oro e ceduto rigatteria. A patto che il soggiorno in quel tempo antico - il '77 - sia al massimo di un mese - perché amo comunque questa complicata contemporaneità - e che possa portare con me il cervello di adesso. Quello coi ricordi, le piaghe, le parole, i talenti minuti e i desideri immani. Quello con le cose capite tardi e col bagaglio di scuse oneste pronto da disfare e mostrare in piazza, al mio arrivo. Avrei il corpicino di allora e la tolleranza che ho da qualche frangente, nella speranza che gli altri ne abbiano con me una buona metà della stessa dose. E non per sapere in anticipo quello che succederà, ma per avere sentimenti adulti, compiere gesti adatti all'amore disinteressato che mi rivolgeste - anime care - e uno volta tornat