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Visualizzazione dei post da gennaio, 2014

Morbosamente fratelli

I ricordi col tempo si spengono, e questo si sa. Il bisogno di ricordi invece aumenta e bisogna fare qualcosa per soddisfarlo, come per esempio tornare sui propri passi. Non solo metaforicamente, ma proprio caracollando in carne e ossa sui posti del passato. La mia scuola elementare, a Narni, l'altro giorno, era come mi chiamasse; la città scuriva nella sera e  - quasi sparita -  l'ho camminata col passo sicuro di chi la conosce e l'ama. O meglio: di chi  l'ha amata e lasciata, come si tradisce - dissennatamente - una donna magnifica. Lì davanti a Sant'Anna il difficile è stato fare ordine nei pezzi di passato che scappando si calpestavano l'un l'altro: una ressa di immagini impazzite. C'era un odore di cucina perenne, all'epoca, nell'atrio. Non un buon odore: minestroso, ammuffito. Ci facevano far gare a chi sapeva meglio i verbi, spesso tornavo a casa con una medaglia che il giorno dopo dovevo restituire. Era sempre la stessa, per

Siamo panda tutti quanti

Poesia, filosofia, umorismo. Tre benedizioni per l'umanità. Ohi, certa filosofia, almeno; e certa poesia; e l'umorismo di un certo tipo. Capita che in determinati momenti della vita trovi quello di cui più hai bisogno. E dentro ci stanno proprio quelle tre benedizioni. Magari senza che stavi a cercarlo, magari senza meritarlo. E magari quel qualcosa è un libro che non pensavi fosse così ganzo. E geniale, dove per geniale si intende che ti va a genio come nessun altro per il tempo pieno di dolore, speranze e progetti che vivi. Un tempo contraddittorio, insomma, dove accanto al peso spaventoso del dovere di (r)esistere senza di lei, c'è il sollievo del coro di amici vecchi e nuovi che ti danno man forte, e tifano per te. Ma non divaghiamo, vengo al punto: ho scoperto un libro a fumetti formidabile: Il primo grande libro di A panda piace , di Giacomo Keison Bevilacqua. Strip, racconti, storie intime di ansia, solitudine, linee della vita che si intrecciano e separano, idi

Tutte le morti meno una

Di tanto in tanto torno nei posti del mio passato a vedere se sono ancora vivi. Perché i posti non muoiono, sono lo stesso palcoscenico che ho calcato quando la mia vita non era questa indigestione di dolore che è ora, ma li ho maledetti talmente, quei posti, da sperare in una carestia che li cancelli. Invece no, non solo esistono ancora ma esistono beffardamente , e lo stesso per gli oggetti: i cuscini che dipingesti, la mia foto a vent'anni che ti piaceva così tanto da metterla in cornice, la prima pagina del Messaggero con lo scudetto vinto, il cofanetto de La vita è bella con la sceneggiatura di Cerami. Mi guardano passare, calpestarli o prenderli in mano - posti e cose -  e ridono di me o nel migliore dei casi mi ignorano, e io cerco un brandello di te, un capello perso sotto il divano, un'impronta delle tue dita sul telecomando senza trovare nulla se non nell'immaginazione. Oggi a Itieli faceva freddo: 20 gennaio, casa disabitata, 8 gradi. Ho resistito cinque minuti

Tarquinia, 1984

Ci sono posti che hanno il potere di aprirmi dentro ferite malinconiche. Come finestre da cui guardare il passato e rimpiangerlo non per come è stato veramente - spesso lento e infelice -  ma per come nel tempo l'ho trasfigurato nella memoria. Immagino capiti a tanti, non lo so. Conosco anche persone che si vantano di vivere solo l'oggi, dimenticando che senza passato l'oggi non esiste. Ma a parte questo. Uno dei posti che mi strizzano l'anima è Tarquinia, litorale dove scendevo da ragazzino con la mia famiglia di allora e dove ho costruito - involontariamente e innocentemente -  ricordi duri a morire. Non perché avessero qualcosa di speciale, quei tempi. Ma solo perché a 16 anni annusi perfino l'odore dell'immondizia in fermentazione nei cassonetti lungo il mare e da grande ne diventi nostalgico. I miei 16 anni facevano abbastanza schifo. Con qualche momento di euforia, tipo una mezz'ora di sole in mezzo a una stagione che piove sempre. Nel 1984 andav