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Visualizzazione dei post da 2013

Il presepe di pasta, il giovanotto e le cinquanta lire nel campo

Quando non so cosa fare, piglio ed esco. Più volentieri in compagnia, ma non mi spavento a uscire da solo. Così oggi, che Susi era via e mi andava di camminare. In giro poi si catturano storie pronte da scrivere, basta stare con le orecchie e gli occhi aperti. A Stroncone vado sempre col tempo contato: ci metto dieci minuti in macchina, poi lì mi concedo una camminata di tre quarti d'ora tra ripide salite e ridiscese: scarpe comode, sciarpa e nessuna paura. Capita così che passando accanto a un uomo anziano che scarica legna da una Panda mi senta chiedere Fa freddo, giovanotto? e io Non troppo, signore. Si sta bene e lui replichi Eh, beato a te che ci hai la gioventù ... Ora qualcuno dei miei irrispettosi studenti ironizzerà su 'sta cosa ma quel signore era veramente troppo vecchio anche in confronto al sottoscritto. Poi arrivo a un campo da calcetto dove ho giocato tempo fa con la Susi, io in porta e lei a prendermi a pallonate. Tira forte e dritta, delle bordate che sem

Affetti personali

Sarà che sono innamorato delle parole, ho cominciato ad amarle da ragazzino e non ho mai smesso. Sarà che un artista che non si prende troppo sul serio e rende pubbliche le sue debolezze mi piace più di tanti musoni. Sarà che nel 1983 avevo 16 anni e se ascoltavi lui eri un dritto e le ragazze si lasciavano corteggiare più volentieri. Sarà che i suoi dischi sono uno più bello dell'altro e ogni volta che li ascolto - l'ho fatto centinaia di volte - rimesto giochi di parole mai fine a se stessi, o un'invenzione lessicale che sottintende un concetto tosto, ma porto con leggerissima follia. Sarà che nella mia vita ho bevuto quanto lui in una settimana - e per questo un poco lo invidio ma se avessi provato a imitarlo sarei morto da un pezzo. Ma insomma: Sergio Caputo è Sergio Caputo. Prossimo ai 60, se ne esce con un libro che ricorda i suoi anni intorno a quel fatidico spicchio di tempo in cui l'Italia era ancora intontita dai boati degli anni di piombo, incredula del Mund

Il muschio selvaggio

Eppure dev'essere successo, da qualche parte. In qualche angolo del passato deve essere capitato che - un giorno - ho smesso di sentirmi felice a Natale. Magari non è stato un taglio netto, più uno sfilacciamento lento, come una corda che si sfibra e alla fine cede. Anni fa era una splendida finzione a cui credevo ciecamente; oggi una realtà a cui non assegno nessun complemento di vero. E non c'entra il discorso religioso, non c'entra il dolore che a palate il destino mi ha servito a pranzo e cena, negli ultimi anni. Il fatto è che oggi non ho più gli occhi con cui guardavo le cose attorno e tutto si è svilito, il trucco è scoperto, il camino è spento, tante persone che ho amato  - e che di quei Natali erano l'anima - sono morte. La mia festa era a rimorchio: altri la addobbavano per me. Non mi va, non son capace di organizzarmela da solo e le persone che ora ho intorno - per un motivo o per l'altro - sono inadeguate. Così passerà anche quest'anno - la festa - c

I ragazzi han bisogno

C'è un'insonnia da disperazione e una da smania di cambiamento. Ho spento la prima a furia di sforzarmi di sognare. Me lo sono imposto, come un digiuno per un obeso. Ora sperimento la seconda, che è il prologo della vita nuova che incomincia. Mi tengono sveglio le cose che voglio fare, che sto facendo. Le parole che voglio scrivere, i soprassalti del cuore. Mi sento vivo assieme , perché da solo mi sentivo perduto. E ho ripreso ad ascoltare musica con un'intensità nuova. Erano pieni di polvere i miei De Gregori, i Vecchioni. Traditi, morti. Da bambino mettevo sul piatto un 33 giri e imbracciavo la racchetta da tennis come una chitarra. Ora è che mi vergogno, sennò lo rifarei. Ma le canzoni della mia vita sono di nuovo mie , son tornate a casa. Spero mi avranno perdonato. Uno dei sistemi per sentirmi vivo è stare con chi ha vent'anni meno di me. Sto coi ragazzi, a scuola, perché volano come gli storni nel cielo di  Roma, senza starci a pensare troppo, solo per protezion

Quando l'inferno ti banchetta dentro

Alcuni amici - vedendomi fare le cose di sempre - mi chiedono come ho superato l'evento più brutto della mia vita: la morte di mia moglie. Risposta facile: non l'ho superato affatto. Convivo coi suoi violenti strascichi e li combatto. Do loro del filo da torcere perché l'alternativa - che conosco:  ne sono stato vittima per alcuni mesi - è una condizione talmente disperata e asfissiante da farti desiderare di andare a dormire la sera e non svegliarti più. Non ci sono terze vie, io almeno non ne vedo: combattere o restarci sotto. Ognuno poi ha il suo modo di reagire alle tragedie personali. Il mio è sì fare le cose che mi piacciono: la radio, l'insegnamento, la scrittura. Ma è anche rispondere presente alla premura degli amici, che mi vogliono a cena o a una partita a tennis; è prendersi cura delle persone che amo. Non ho la pretesa di parlare a nome di tutti quelli che hanno subito un torto dal destino. Dico solo che io reagisco così. Le persone che amo, che mi stanno

Sui ricordi

Avrebbe cent'anni oggi mio nonno. Era nato nel 1913. Parlo del nonno materno: Igino. Che io ricordi nessuno mai lo ha chiamato così, solo Gino, per quella semplificazione familiare che nasce dalla necessità di nominarsi spesso. Per cui via la i con buona pace dell'impiegato dell'anagrafe, che coi venti di guerra che soffiavano magari sul registro quel nome neanche lo aveva scritto bene. Fece la guerra, mio nonno, la seconda, si capisce, e finì prigioniero degli inglesi in Albania, dove si sospetta che sia stato niente male: mangiava tutti i giorni, non doveva sparare e pare avesse anche dolce compagnia indigena. Non che ne sappia di più: ogni volta che qualche parente entrava in argomento lui svicolava e mia nonna - sua moglie - alzava gli occhi al cielo come a dire acqua passata . Mi ha allevato soprattutto lui, finché sono stato piccolo. A modo suo - rude, infaticabile e col cuore incredibilmente grande. Fare ordine nei ricordi che ho di lui non è facile. Sono tanti, t

Ecco perché amo il buio

Il primo giorno di ora solare, il buio in anticipo rispetto a ieri; puoi guardare dentro le finestre dalle luci accese e vedere come vive la gente. Ad Alessandra piaceva, quando andavamo a zonzo per mano fino a sfiancarci, senza neanche una bicicletta per fare più veloce. Il sabato pomeriggio, qualunque cosa succedesse al mondo, esistevamo solo noi, appiedati e lenti, tra la periferia e il corso. E comunque a lei piaceva sbirciare dentro le case. Non era invadente, le piaceva perchè la sua famiglia era rissosa, scollata. Voleva vedere se altrove fossero stati più fortunati. Il buio ci mangiava i piedi, a un certo punto. Allora per rassicurarci seguivamo chiazze di luce per terra, tuffate dai lampioni e dai negozi. Io cercavo di portarla al parco, su una panchina nascosta tra gli alberi, per trovare un passaggio tra tutti quei vestiti che aveva indosso e arrivare con la mano a carezzarle il seno. Quando ci arrivavo era solo per sfiorarne la carne, si ritraeva sorridendo, si ricomponeva

Alessandra Franceschini

Un anno intero. Se tu fossi davvero in viaggio avresti fatto migliaia di chilometri, anche ad andar piano come quando guidavi la 500. Di noi ho raccontato tanto, in questo tempo, a volte qualche intimità, ho avuto parole di conforto dagli sconosciuti e indifferenza e bugie da chi credevo ti amasse. Il 25 ottobre rimarrà per me, finché campo, Hiroshima: il 2013 è solo il primo anniversario del disastro, altri ne seguiranno, tutti rabbiosi ed eretici. Il tuo corpo magnifico che si decompone dentro quella bara: ecco, non posso pensare a questo senza provare un odio perfetto per dio. Meglio per lui se non esiste, ci fa più bella figura. E, in second'ordine, non riesco a non pensare al male che ti han fatto, quando qualcuno che amavi e di cui ti fidavi vendette una casa che in parte era anche tua, senza dirti niente, senza sganciarti un centesimo. Non per i soldi, di cui non ti importava niente: ti sentisti tradita. Son cose di cui non vorresti che io parlassi ma me le son tenute dentr

Il talento della bestialità

Ma lei perché scrive? mi domandò una signora un giorno a una presentazione. Lì per lì rimasi un po' infastidito, scambiando quella domanda per una provocazione. Poi ho capito che era qualcosa di più, una specie di cosa retorica la cui risposta sottintesa era: Ha ragione lei, tanto non serve a niente . Perché non serve a niente fare l'artista, avere un talento piccolo o grande, duecento persone che ti seguono o due milioni. Non ha senso mandare in avanscoperta le nostre opere - insignificanti o geniali - al nostro posto. Siamo noi che dovremmo esporci, carne e sangue, non i nostri simulacri. Questo tanto per cominciare. Poi non ha senso perché non si cambia il mondo con l'arte, neanche quello piccolo che sta dentro la nostra testa. Si impara semmai a essere presuntuosi o depressi, a seconda che si abbia successo o no. Fanno tenerezza quelli che mettono accanto al proprio nome - su fb o solo sulla targa di un portone - la dicitura artista . Fa molto Andy Warhol ma la pop ar

Malinconia di mezza stagione

C'è un periodo preciso - una dozzina di giorni tra la prima e la seconda metà di ottobre - in cui ogni anno, appesi ai terrazzi, trovi assieme gli asciugamani del mare e le trapunte d'inverno, pronti a darsi il cambio come sentinelle sul confine di stagione. Questo han di buono i momenti di passaggio: che ci fanno nostalgici del tempo - perché solo del tempo si può esserlo: i luoghi che ci stan dentro sono incidenti - e lieti d'aver passato indenni altri anniversari. Stavo a Piediluco oggi, nell'ora d'aria e di libertà da tutti e tutto che ogni tanto mi concedo. Qui sono stato bene in tempi lontani e recenti, con persone così straordinarie da essere amabili nel modo più forte che so. Non so se è un modo forte, il mio, di amare, rapportato a quello d'altri. So che è senza risparmio e bugie, è il mio record del mondo. Ma a parte questo. Ho guardato il lago, un mare piccolo, a misura della mia nostalgia: troppa uccide o impedisce di vedere avanti. Perché della nos

L'innocente

Facesse male, si sentisse dolore, il giorno che uno perde l'innocenza, ci staremmo attenti. Invece succede in silenzio, come un fantasma che viene a farti visita di notte e te dormi e non lo sai. C'è un giorno in cui maturi il cinismo degli adulti, in cui cominci a giudicare le persone, in cui prendi a fare le cose per calcolo e non più per divertimento. Non capita a tutti alla stessa età e allo stesso modo. Non è facile neanche ricordare, quando cresci, come ti è successo. Ma succede, ed è uno strappo che non si ricuce. C'entrano i tuoi genitori, una scuola diversa, una derisione subita, un innamoramento. Oppure no: avviene e basta, senza complici, e non puoi buttare la croce addosso a nessuno. La mia innocenza giocava con me a pallone nei vicoli dietro casa, s'ammalava con me a prendere ariate che ero sudato, con me si iniettava antibiotici, riceveva le visite degli amici sani che prima di andare al cinema le facevano invidia, con me delirava per la febbre alta, co

La maledizione di fare un figlio

I figli si amano più dei nostri passatempo, o non si fanno. E non si amano subito, appena li vedi nell'incubatrice. Là dentro inteneriscono, brutti come sono, ci vien da piangere, scambiamo quelle lacrime per amore e una attimo dopo il terrore: E adesso? Che ne sarà della mia indipendenza? L'amore si costruisce nel tempo, quando devi scegliere tra te e lui, te ne accorgi perché ti prende poco alla volta, come un'abitudine nuova che non sai se maledire o no. Qualcuno li uccide, i figli. Qualcuno si annienta per loro: due opposte reazioni umane allo stesso contrattempo. Stamattina ero in fumetteria. Davanti a me, alla cassa, un uomo sui quarant'anni, calzoni corti, pancia tonda, capelli  unti, barba a chiazze. Discuteva entusiasta con la ragazza dietro il banco di Wolverine, delle varie edizioni, dei disegnatori, dei film che ne han tratto, con una competenza sbalorditiva. Lo teneva d'occhio, a un metro, una donna sui settanta, sua madre. Lo guardava teneramente sen

Dio e Lampedusa

Se fossi Dio ci ripenserei. Non so se Dio può ripensarci: è perfetto; solo chi è imperfetto dubita, ci ripensa, torna indietro. Comunque se fossi Dio potrei fare quel che voglio - magari imbrogliando un po' -  e dunque sì, ci ripenserei. E cambierei qualche regola a 'sto mondo, per esempio i limiti di amore e dolore. L'amore ne ha, finisce, s'illude e cade e muore; il dolore no: si trasforma, lievita, diventa odio, cattiveria, si fa immane sofferenza, gerla maligna da issare sul dorso. Darei all'uno le caratteristiche dell'altro - amore che non si plachi mai e dolore che muoia - così, giusto a consolazione della vita indifesa. E già che ci sono cambierei il percorso, il trekking che passa dentro la sofferenza come speleologi in una grotta infinita. Arrivare alla gioia senza passare per il male, o passando per un male sopportabile. Quali accordi hai, Dio, con il male? Perché non se ne può fare a meno? Non me lo hanno mai spiegato preti e catechisti: è così e bast

Dài su: sbendiamoci!

Le stagioni di passaggio sono quelle che preferisci. Quando l'estate, femmina volubile, va a letto con l'autunno, maschio malinconico, nascono belle speranze. Le cose attorno cambiano. Non lo fanno apposta: è nella loro natura. La prima mutazione è che devi metterti gli occhiali. Prima leggevi il breviario nelle mani del prete come un falco che stesse centro metri sopra, appollaiato su una grondaia; ora non vedi nitide neanche le tue dita. A lei saresti piaciuto lo stesso, da morire. Anzi: da vivere. A lei piacevi sempre, anche in pigiama e mezzo sbronzo la sera di carnevale. Ma stavolta non devi parlare d'amore - non solo d'amore, almeno -  sennò tutto prende una piega triste e non vuoi, non questa volta. Stai parlando di mutazioni. Quel che ti ha trasformato è stato ciò che ostinatamente hai inseguito e raggiunto e poi corteggiato e tradito - a volte - e infine riconquistato. Musica, libri: parole, fondamentalmente. Hai amato le parole, ci hai fatto l'amore. Te l

Settembre

Settembre è un mese micidiale per i nostalgici. Una porta che ti serve per chiudere fuori l'estate e le sue sudate inconcludenze e recuperar vigore, e far ripartire progetti. Ti accorgi che la stagione cambia quando di notte, a un tratto, pensi che non sarebbe male aggiungere una coperta al lenzuolo. Non perché hai proprio freddo ma solo per sentirti protetto dai fantasmi che ti guardano dormire, e quella coperta te la tiri fin sotto il naso, e concludi "Ecco, ora è perfetto" e ti giri sul fianco del sonno. A settembre nasce la stagione oscura: all'inizio gentile, col suo rinfresco di venti e piogge caute, poi triste e lenta a camminare, come un pachiderma nero per la strada. E torni a scuola, fa ancora caldo la mattina, ci si veste estivi ma con un presagio di neve, di brace e castagne, latte bollente e suffumigi. E vivi andando dietro ai sogni come un tempo alle ragazze, fino a che hai trovato quella che ti ha spaccato il cuore e magari - per l'accidente del c

Dietro la porta di casa mia

Salgo a Narni più che altro per necessità, sempre coi minuti contati. Resto quel tanto che basta ad aver voglia di tornarci appena sono via. La mia città regala bellezza a ogni angolo, specie in primavera e in autunno. Maggio e settembre i mesi d'oro. Oggi son salito a prendere un po' di cena da mia madre e i panni puliti di lavatrice. Poi non era tardi e ho indugiato, ricercando il me ragazzino, studente universitario, innamorato, sposo, perdigiorno, tra le screpolature dei vicoli, le piazze ovali come una bella donna in carne, le traiettorie della luce che salta sui cofani delle auto in sosta, allaga una vetrina di merceria, si spegne dove un tetto sporge a far ombra. Qui mi dimentico di dover morire. Saluto tante facce, di poche ricordo che nome c'è dietro ma non fa niente: tutto qui sorride alla mia vita, tutto torna. Sembra che il destino, dopo avermi costretto a giri inconcludenti e pazzi si plachi e mi riaccompagni a casa. Da qui tutto è partito, qui ho sopportato

E il mio tutto che ancora si ostina a cercare una via (intervista a Niccolò Fabi)

Gentile e malinconico. E bello, tanto da attirare le donne e far invidia agli uomini. Incontro Niccolò Fabi alla terza edizione dell'Otricoli Music Festival, organizzato nella cittadina umbra dall'amministrazione comunale in collaborazione con la Pro Loco. Una chiacchierata di pochi minuti, al tavolo di un ristorante. Questo ne è il fedele resoconto: - Il concerto di oggi è uno spettacolo acustico con Pier Cortese e Roberto Angelini. Come nasce questa particolare collaborazione? - Noi tre siamo amici da molti anni e suoniamo insieme anche in occasioni non ufficiali. Roberto e Pier hanno suonato anche nel mio disco più recente. Questa è la coda della turné che ci ha portati in giro per l'Italia tutta l'estate. - Il tuo disco Ecco si presta molto a essere suonato live in forma acustica. Sembra quasi che le canzoni siano state concepite per essere presentate al pubblico in questa veste . - Ecco è un  disco molto suonato, registrato quasi in presa diretta. In realtà è

Mi sono addormentato ed è successo

Da ragazzino un film mi spaventò più di tutti. In realtà due, ma del secondo parlerò un'altra volta. Quello che lasciò il segno nella mia anima fu L'invasione degli ultracorpi , classico in bianco e nero della fantascienza politicizzata. Gli alieni che prendevano il posto degli umani appena questi si addormentavano era un chiaro riferimento alla paura che il comunismo si insinuasse nelle menti degli americani in tempi di guerra fredda. Naturalmente io non sapevo un cavolo di metafore e roba simile, avevo solo dieci anni. Però trasportai il senso di quel film nella mia vita. E feci male perché ci soffrii come un cane. Mi convinsi che i miei genitori fossero delle copie, involucri familiari che contenevano mostruose entità incapaci di provare emozioni e incaricate di sorvegliarmi. Da chi e per quale motivo non ero abbastanza grande per chiedermelo. Credevo di percepire la finzione, certo che appena mi voltassi loro smettessero le pose e tornassero mostruosi come li immaginavo. Do

Lo Speco e la collina ammazzamotori

Devi arrivarci a piedi, non ci son santi. O meglio, ce n'è uno ma è appunto per lui che sei lì: è da trogloditi arrivargli col muso del Suv davanti al cancello. Parcheggia dove c'è il parcheggio, facile, e fattela tutta in apnea la salita, mica muori, son solo duecento metri. Un'erta, tipo la celebre ammazzamotori che porta al deposito di Paperone. Ma qui il tesoro è più prezioso, ancorché intangibile. Quando sei in cima respira, prenditela calma, guardati attorno: sei in paradiso. Il paradiso a venti minuti di macchina da Terni, anche meno da Narni: lo Speco Francescano, dove il santo di Assisi soggiornò, predicò purezza d'animo e umiltà, dove giocò, rise e dormì sulla roccia, dentro una spelonca fredda anche in agosto. Ci sono andato ieri, da solo - non c'è bisogno di essere credenti di ferro per salire fin lassù: è un luogo umanamente sacro -  per un grappolo di motivi che mi ci hanno spinto e che ho lietamente assecondato. Il primo è che avevo bisogno di si

Sul fanatismo

Osservare in silenzio e prendere appunti dentro la testa. Una ricetta facile, se ogni tanto scrivi una storia che ha la fortuna di finire in un libro. Così i tuoi mille lettori non possono contestarti che giochi troppo di fantasia. E osservare apre gli occhi -  cosa meno ovvia di quel che sembra -  perché guardiamo troppo senza vedere. Io per dire mi diverto a studiare i fanatici e il modo in cui manifestano il loro fanatismo. Qualche esempio. All'edicola dove mi fermo tutte le mattine ho scoperto un signore che ogni mese compra un consistente numero di albi a fumetti. E fin qui. Solo che lui li sceglie. Si fa consegnare dal giornalaio cinque o sei copie dello stesso numero dello stesso personaggio. Le soppesa, le scruta davanti e dietro, ne studia le pieghine, la rilegatura, passa le dita sulla costina in cerca di imperfezioni. Poi acquista la copia più immacolata e se ne va soddisfatto. Un collezionista della perfezione, un utopista, in fondo. Altro esempio: le fanatiche dei g

Primo amore, come stai?

A pensarci bene sono nato nel medioevo. Le figurine si incollavano ancora con la coccoina, quelle dei calciatori le regalava la Domenica del Corriere; in tv la più bella era la Carrà, i più bravi - ma bravi sul serio - Corrado, Walter Chiari, Tortora e Vianello. Guardavamo le partite alla radio e viaggiavamo di fantasia, tra gol sperati e scongiurati. I pomeriggi d'inverno mi morivano negli occhi man mano che si scuriva la montagna davanti casa, e allora era tempo di compiti. E di antibiotici, le tante volte che stavo male. O m'incappottavo e scendevo in tabaccheria, dove mio padre e tutti gli adulti fumavano davanti ai ragazzini e nessuno che si sognasse di dirgli di smetterla. Ora non si può fumare neanche all'aperto ma abbiamo città avvelenate da industrie e automobili. E però questo non c'entra. Al cinema sotto casa davano  Ben Hur e I dieci comandamenti , non esattamente delle anteprime. Il primo film che vidi a Terni credo fosse Zanna Bianca , avrò avuto sei

Ricordi per farci una guerra

Succede come quando butti un sasso in uno stagno e si formano cerchi concentrici che si allontanano dal centro. La solitudine è quando tutti hanno qualcosa di meglio da fare che stare con te o ti invitano a improponibili feste in piscina con la musica di Fedez e Mengoni. E a pensarci: la parola solitudine è un inganno. Fa pensare a un'attitudine al sole, invece è un rimestare nel buio, la punta di una penna intinta in un calamaio. Mi salvano dal torpore le mie parole, che s'arrampicano su per il tempo fino a che la memoria ce la fa, fino a convincermi che quel che ricordo sia reale, non un arbitrio della fantasia. Di ricordi spaccacuore ne ho per farci una guerra. Uno porta dritto a mio zio, il fratello di papà, maestro di pianoforte, morto improvvisamente nel '95 a neanche settant'anni. Lui è stato un baluardo della mia infanzia. Lavorava a Roma, faceva l'assicuratore. Si sposò tardi, finché fu scapolo visse con noi. Tornava in treno ogni pomeriggio alle qua

Il cielo vuoto

Stamattina, calpestando l'ombra dei palazzi, nel tragitto infocato tra la radio e la macchina, ragionavo sulla sofferenza. Quella di mia moglie, che è stata privata della cosa cui più teneva: la sua famiglia; e la mia, che sono stato ingannato da chi credevo sincero sulla malattia e sul tempo che le restava da vivere. Un anno fa, di questi giorni d'agosto, ho intuito che eravamo alla fine: ben più tardi di altri che - sapendolo -  han deciso che non era il caso di dirmelo. Fino all'ultimo ho però sperato di sbagliarmi, ho sperato che quella debolezza invincibile, quella voce sottile, quegli occhi da uccellino fossero solo un effetto accettabile, passeggero, di farmaci risolutivi. Chi segue con affetto quanto scrivo (grazie davvero) sa che non mi tiro indietro a raccontare perfino l'intimità perché mi serve per inchiodare tutto alla memoria. Non voglio dimenticare. Vorrei soffrire meno, quello sì, ma vorrei ricordare ancora di più. Insomma, il tre agosto del 2012 io e Al

Dueagostoottanta: la perdita dell'innocenza

La mattina del due agosto Ottanta faceva caldo da morire. Mio padre mi portò a vedere il rudere che aveva comprato a Itieli, entusiasta, e io - ragazzino - ci andai volentieri perché vedere mio padre sorridente e di buon umore era evento raro. Una volta lassù mi parve che aveva preso una cantonata ma non glielo dissi: un intrico di rovi, cespugli, erba alta, serpi, e giusto una stalla sventrata come da un bombardamento. A lui luccicavano gli  occhi. Pensai che rimettere in sesto quel disastro era impossibile. Mi colse anzi una fastidiosa inquietudine, a contemplare quel nulla. Disse: "Vedrai che cosa ti tiro fuori" e già m'ero stancato di avergli dato corda. A casa mangiammo e poi lui andò in salotto e accese la tv. Mentre finivo il gelato ci chiamò, a me e a mia madre. La voce gli tremava. Il tg trasmetteva le immagini di uno scempio:  la stazione di Bologna. I morti, il sangue censurato, le notizie che si accavallavano, la concitazione degli inviati, le facce gialle,